Ogni atmosfera culturale è profondamente legata alla società nella quale si sviluppa. Questi due contesti nei quali viviamo si influenzano l’un l’altro, dando vita a diverse situazioni storiche sempre diverse che a loro volta modificano i nostri modi di vivere, le nostre abitudini, le nostre concezioni e i nostri punti di vista. Un grande cambiamento culturale ha enormi ripercussioni sociali, così come le mutazioni sociali influenzano la cultura di quel determinato periodo.
La società odierna, nella quale noi viviamo, è definita come società di massa. Essa ha le sue radici nei profondi cambiamenti che si sono verificati nel secondo dopoguerra. Il cosiddetto “boom economico” che ha introdotto l’Italia nel novero delle potenze industriali europee ha portato il benessere economico in moltissime famiglie italiane. Si sono diffusi tutti i beni di consumo, ovvero tutti quei beni non essenziali che concorrono a un miglioramento della qualità della vita. La comunicazione televisiva inizia il suo operato a metà degli anni ’50, svolgendo una funzione storicamente molto importante: una società contadina caratterizzata da un alto tasso di analfabetismo e del tutto estranea al contesto nazionale ed internazionale, viene trasformata in una società industriale alfabetizzata e scolarizzata dove ogni individuo conosce (o almeno ha la possibilità di conoscere) il contesto in cui vive. Insomma, la televisione in quegli anni ha dato un forte impulso all’unificazione linguistica dell’Italia, anche se a scapito di tutto il preziosissimo mondo contadino prenazionale e preindustriale costituito da tradizioni, dialetti e altri tratti fondamentali del patrimonio culturale locale. Secondo Pier Paolo Pasolini, l’adeguamento totale e forzato di questi modelli culturali a un modello culturale unico, definito dall’intellettuale come “spietato totalitarismo”, danneggia enormemente il patrimonio culturale italiano. La “cultura” della civiltà dei consumi, oltre a distruggere le piccole realtà culturali, depaupera enormemente l’espressività della comunicazione eliminando i dialetti. Inoltre, vengono creati bisogni artificiali, necessari per il corretto funzionamento industriale (e per l’arricchimento dei soliti “pochi”). Questi bisogni sono indotti dalla pubblicità, che pressa psicologicamente l’uomo-massa verso determinate scelte di consumo spesso non necessarie.
Non solo la pubblicità condiziona il modo di pensare dell’uomo: le trasmissioni televisive sono in genere povere di contenuto culturale e danneggiano l’identità delle arti, coadiuvando il processo di eliminazione della parte più interiore e riflessiva dell’uomo. Il tempo per ogni riflessione interiore non è produttivo e per questo è considerato inutile dalla “Civiltà del Progresso”, dove conta solo ciò che è monetizzato. La ricerca spasmodica dell’utile economico e del guadagno ha travolto anche la cultura, che viene riorganizzata secondo i criteri tipici dell’industria. Un libro, o un qualsiasi prodotto intellettuale come un disco musicale, viene considerato come merce dalla quale bisogna ricavare un maggior utile possibile. Questi processi economici, insieme alla pubblicità e ai mass media, alimentano questa mercificazione dell’Arte e del Sapere, che confluisce in un’unica grande cultura di massa. Non esiste più una cultura “alta”, destinata a pochi eruditi, e una bassa, rappresentata dalla saggezza popolare o da opere di minor rilievo, destinata al popolo più semplice: la cultura di massa è appetibile a tutte le classi sociali, senza alcuna distinzione. I libri possono essere trovati non solo nelle librerie, ma anche nelle edicole e perfino sugli scaffali dei supermercati. Una tale mercificazione sembrerebbe capace di annientare la funzione portatrice di valori dell’Arte, ma fortunatamente non è così. Come ci spiega Umberto Eco in un suo saggio, la cultura di massa non ha eliminato la cultura “alta”, ma ha solo raggiunto coloro che in precedenza non avevano la possibilità di accedere ad alcuna forma di cultura. Purtroppo la cultura con cui entriamo in contatto è spesso superficiale, di scarsa qualità, priva di valori profondi e prodotta solamente ai fini dell’intero guadagno economico. Sembrerebbe che al giorno d’oggi la Cultura sia stata immolata sul sacro altare del Dio Denaro, in nome del progresso e del guadagno. Fortunatamente non è così: la cultura alta, quella veramente utile al progresso e alla felicità dell’uomo, continua a sopravvivere. Le nostre diverse sensibilità rispetto alla cultura (quella veramente degna di esser definita tale) ci permettono di selezionare tutta l’enorme produzione culturale che ci viene proposta, individuando le opere portatrici di veri valori artistici tra le tante deludenti pseudo-opere.
La distribuzione dell’Arte come prodotto consente a tutti di attingere alla cultura vera, ma la maggior parte delle persone ha un rigetto verso le forme d’Arte più impegnative e importanti: ciò mantiene la cultura vera come cultura elitaria, destinata ai pochi che la vogliono accogliere nelle loro vite. La cultura è l’unico mezzo con un potenziale tale da permetterci di poter davvero cambiare questo mondo e renderlo più giusto. A una società così strettamente legata al denaro e ai beni materiali, dobbiamo opporre una resistenza ferrea fatta di cultura, Arte e conoscenza. Non dobbiamo assolutamente permettere che i valori immortali dell’Arte soccombano sotto il fuoco incessante di questa società senza identità culturale e senza spirito artistico. La cultura è la prima pietra sulla quale costruire un mondo dove l’uomo possa progredire verso forme più evolute di civiltà e riscoprire la sua identità artistica e spirituale. Se vogliamo vivere in un mondo dove ogni essere umano abbia la possibilità di realizzarsi (non solo materialmente, ma anche spiritualmente), dobbiamo necessariamente riorganizzare la gerarchia dei valori nella società. Ogni espressione dello spirito umano può condurci verso il vero progresso, fatto non solo di denaro, ma anche di benessere e felicità.