lunedì 5 agosto 2013

Recensione: Culture Clash - The Aristocrats

Quando si sta per ascoltare un nuovo disco – magari il seguito di un album già apprezzato in precedenza – si entra in uno stato mentale particolare, ci si crea intorno un microcosmo di aspettative costruite soprattutto sull'esperienza musicale precedente. Se poi il disco in questione è il secondo disco di una band chiamata The Aristocrats, formata da Guthrie Govan alla chitarra, Marco Minnemann alla batteria e Bryan Beller al basso, le aspettative sono altissime. Sono tre musicisti che non hanno alcun bisogno di presentazioni o elogi particolari: le loro carriere sono ben note anche a molti tra i non addetti ai lavori e le loro qualità musicali sono indiscusse. Il disco d'esordio è stato un brusco fulmine a ciel sereno nell'assopito panorama del progressive rock (anche se tale etichetta è comunque troppo stretta per una band del genere) e ha sfatato la leggenda metropolitana secondo la quale un supergruppo non potrà mai fare un disco veramente bello. Magari ne esce un disco carino, o un disco che si ascolta con molto piacere, ma non ci si aspetta minimamente qualcosa che si avvicina al capolavoro.
Con queste premesse e conoscendo il sound caratterizzante del loro primo disco, un secondo album è la prova del nove. E l'eclettico trio non sbaglia neanche questo colpo. Culture Clash è un disco di conferma, che vuole affermare con più forza un nuovo standard nel campo del rock sperimentale. Se il lavoro omonimo del 2011 si poteva definire innovativo, il nuovo album non tradisce le aspettative, continuando a sperimentare seguendo la stessa strada maestra, fatta di influenze e contaminazioni continue tra rock, jazz, blues, metal e funk. Letto così può sembrare uno zibaldone di generi poco omogenei, ma la maestria tecnico-artistica dei tre riesce a fondere tutti gli elementi di partenza per arrivare a un risultato che è superiore alla somma delle sue parti. Nonostante le continue minuziosità tecniche il disco scorre al meglio delle sue possibilità. Le diverse anime del disco si possono percepire in ogni pezzo e i tre ragazzi dimostrano di saper suonare con la mente dei jazzisti e la verve dei rocker. La contaminazione tra i generi è il filo rosso che collega tutti i brani, coinvolgendo l'ascoltatore con repentini scambi di matrice, tempi e ritmiche. Non mancano le sfuriate blues/country come Louisville Stomp (in cui il tocco di Guthrie riveste un ruolo fondamentale), i pezzi vicini al jazz come la title track e Desert Tornado e i brani caratterizzati da una ben presente vena rock/metal come Ohhh Nooo (sì, il titolo è questo) e Gaping Head Wound. La mosca bianca, il brano che si accomoda con grazia al di fuori del contesto (sempre che in un disco così vasto si possa parlare di un contesto) è Dance of the Aristocrats, un pezzo vagamente new wave elettronica anni '80 in stile New Order rivisitato nelle cifre stilistiche del trio.
Anche solo alla fine del primo ascolto si comprende facilmente che questi tre alchimisti hanno tra le mani la pietra filosofale della sperimentazione. Culture Clash, nel confermare la grandezza artistica di questo giovane progetto, riesce comunque ad innovare ancora il sound della band senza appesantirlo. Se la curva evolutiva è questa, questo trio ha ancora moltissimo da mostrare al suo pubblico.