Quando si sta per
ascoltare un nuovo disco – magari il seguito di un album già
apprezzato in precedenza – si entra in uno stato mentale
particolare, ci si crea intorno un microcosmo di aspettative
costruite soprattutto sull'esperienza musicale precedente. Se poi il
disco in questione è il secondo disco di una band chiamata The
Aristocrats, formata da Guthrie Govan alla chitarra, Marco Minnemann
alla batteria e Bryan Beller al basso, le aspettative sono altissime.
Sono tre musicisti che non hanno alcun bisogno di presentazioni o
elogi particolari: le loro carriere sono ben note anche a molti tra i
non addetti ai lavori e le loro qualità musicali sono indiscusse. Il
disco d'esordio è stato un brusco fulmine a ciel sereno
nell'assopito panorama del progressive rock (anche se tale etichetta
è comunque troppo stretta per una band del genere) e ha sfatato la
leggenda metropolitana secondo la quale un supergruppo non potrà mai
fare un disco veramente bello. Magari ne esce un disco carino, o un
disco che si ascolta con molto piacere, ma non ci si aspetta
minimamente qualcosa che si avvicina al capolavoro.
Con queste premesse e
conoscendo il sound caratterizzante del loro primo disco, un secondo
album è la prova del nove. E l'eclettico trio non sbaglia neanche
questo colpo. Culture Clash è un disco di conferma, che vuole
affermare con più forza un nuovo standard nel campo del rock
sperimentale. Se il lavoro omonimo del 2011 si poteva definire
innovativo, il nuovo album non tradisce le aspettative, continuando a
sperimentare seguendo la stessa strada maestra, fatta di influenze e
contaminazioni continue tra rock, jazz, blues, metal e funk. Letto
così può sembrare uno zibaldone di generi poco omogenei, ma la
maestria tecnico-artistica dei tre riesce a fondere tutti gli
elementi di partenza per arrivare a un risultato che è superiore
alla somma delle sue parti. Nonostante le continue minuziosità
tecniche il disco scorre al meglio delle sue possibilità. Le diverse
anime del disco si possono percepire in ogni pezzo e i tre ragazzi
dimostrano di saper suonare con la mente dei jazzisti e la verve dei
rocker. La contaminazione tra i generi è il filo rosso che collega
tutti i brani, coinvolgendo l'ascoltatore con repentini scambi di
matrice, tempi e ritmiche. Non mancano le sfuriate blues/country come
Louisville Stomp (in cui il tocco di Guthrie riveste un ruolo
fondamentale), i pezzi vicini al jazz come la title track e Desert
Tornado e i brani caratterizzati da una ben presente vena rock/metal
come Ohhh Nooo (sì, il titolo è questo) e Gaping Head Wound. La
mosca bianca, il brano che si accomoda con grazia al di fuori del
contesto (sempre che in un disco così vasto si possa parlare di un
contesto) è Dance of the Aristocrats, un pezzo vagamente new wave
elettronica anni '80 in stile New Order rivisitato nelle cifre
stilistiche del trio.
Anche solo alla fine del
primo ascolto si comprende facilmente che questi tre alchimisti hanno
tra le mani la pietra filosofale della sperimentazione. Culture
Clash, nel confermare la grandezza artistica di questo giovane
progetto, riesce comunque ad innovare ancora il sound della band
senza appesantirlo. Se la curva evolutiva è questa, questo trio ha
ancora moltissimo da mostrare al suo pubblico.